Il giallo sulla morte del giovane fascista venturinese
Condividi

Furono tempi davvero duri quelli che ci accingiamo a raccontare. Dopo la fine della grande guerra, terminata il 4 novembre 1918, le cose, invece di migliorare, erano peggiorate e la situazione economica cominciava a farsi preoccupante. Le speranze per i reduci del fronte di tornare a casa e ricominciare a vivere dignitosamente, con i frutti del loro lavoro, erano state in gran parte disattese e questo aveva generato una grande tensione sociale.

La possibilità che anche in Italia potesse scoppiare una rivoluzione come quella verificatasi in Russia nell’ottobre del 1917, che aveva portato alla nascita di una repubblica socialista, rappresentava l’incubo più grande dei possidenti nostrani.

Nel periodo compreso tra il 1919 e il 1920, passato alla storia come il “biennio rosso”, anche in Italia ebbero luogo grandi mobilitazioni e rivolte operaie e contadine, con scioperi, manifestazioni e scontri.

Queste lotte di classe misero in grande allarme i proprietari terrieri, che trovarono nello squadrismo lo strumento ideale per difendere i loro interessi e soffocare la ribellione con la forza.
Molti ex soldati, traumatizzati o esaltati dalla drammatica esperienza della guerra, non riuscirono più a reinserirsi nella normale vita sociale. Nacquero così delle formazioni paramilitari, squadre organizzate formate da sbandati che avevano come scopo quello di impedire il realizzarsi in Italia di una rivoluzione bolscevica che, secondo loro, avrebbe minacciato i valori del nazionalismo tanto cari alla destra, alla quale essi facevano riferimento politicamente.

In realtà il nazionalismo c’entrava fino a un certo punto e il primo scopo degli squadristi, foraggiati da industriali e proprietari terrieri, era quello di contrastare l’ascesa del socialismo e le rivendicazioni di operai, braccianti agricoli e contadini i quali, a loro volta, non esitavano ad usare la violenza, se necessario, per cercare di farsi valere. Quella in atto era quindi una vera e propria guerra di classe: da un lato i “proletari”, lavoratori dell’industria e delle campagne, in gran parte anarchici, socialisti e comunisti; dall’altro i “padroni” e più in generale tutti quei conservatori che avevano interesse a mantenere inalterato lo stato delle cose e a far fallire le teorie marxiste e anarchiche: industriali, borghesi, latifondisti, militaristi e preti.

Molti degli squadristi fascisti provenivano da un corpo speciale dell’esercito italiano, gli “Arditi”, che si era distinto per la sua abilità e ferocia. Non tutti i membri di questa élite militare però appoggiavano il fascismo, molti erano di sinistra e così, nell’estate del 1921, alcuni di loro fondarono un’organizzazione armata, che fu chiamata “Arditi del Popolo”, per combattere le squadracce fasciste.

Gli anarchici aderirono entusiasticamente alle formazioni degli Arditi e spesso ne furono i promotori, individualmente o collettivamente.

Per iniziativa del deputato socialista Giuseppe Mingrino, nel 1921, si era costituito a Piombino il 144° battaglione degli Arditi del Popolo, formato quasi esclusivamente da elementi anarchici che si resero protagonisti delle dure e spesso sanguinose lotte che impedirono ai fascisti di entrare a Piombino fino alla primavera del 1922.

Il giorno 11 giugno però, gli antifascisti sono costretti a capitolare. La banda cittadina ha appena finito di suonare in Piazza Bovio e la gente intervenuta sta sfollando quando si ode un colpo di rivoltella che uccide il diciassettenne fascista Giuseppe Salvestrini. L’autore resta ignoto, ma subito si segue la “pista anarchica” che porta all’arresto di quattro ragazzi poco più che adolescenti: Amos Giacomelli, Cesare Lorenzi, Tommaso Agnarelli e Anarchico Ravenni.

Gli antifascisti piombinesi sono però convinti che l’omicidio sia stato una messa in scena organizzata dal locale partito fascista per scatenare la vendetta, distruggere le organizzazioni che erano rimaste e colpire il movimento operaio. Questa violenta reazione, infatti, avvenne il giorno dopo. I fascisti devastarono la sede socialista, la Camera del Lavoro Confederale e quella Sindacale, il Teatrino Sociale e la Tipografia Avanguardia. In molti, anche solo sospettati di essere sovversivi, furono bastonati a sangue, mentre altri, in seguito alle minacce, lasciarono la città.

Nel 1922 il Cafaggio è il centro agricolo più importante del comune di Campiglia. Lì si trovano diverse fattorie e svariati poderi, abitati da famiglie contadine numerose e operose, che condividono, oltre alla fatica del lavoro quotidiano, anche le idee politiche. I contadini del Cafaggio sono quasi tutti anarchici, socialisti o comunisti.

Sabato 19 agosto è una calda sera d’estate come tante, il sole ha lasciato il posto a una sottilissima fetta di luna, che illumina a stento i passi lungo le strade polverose. Quasi quotidianamente le squadre fasciste locali girano per la campagna in perlustrazione, cantando a squarciagola: “a sera a letto all’otto o sono bastonate!” Urlano e sparano con la pistola colpi per aria, terrorizzando gli abitanti che, quando li sentono arrivare da lontano, si chiudono in casa per evitare guai.

Tra di loro però c’è anche chi non ha paura, come Astorre, uno dei figli di Amerigo Tagliaferri e Quintilia Pistolesi. è quasi maggiorenne, tra meno di un mese compirà i fatidici ventuno anni che lo renderanno a tutti gli effetti un uomo. Ma lui un uomo già si sente da un bel pezzo. Fin da giovanissimo non ha avuto alcun timore a partecipare all’attività del movimento anarchico e alle lotte del “biennio rosso”. Abita con i genitori e i fratelli – Massimo, Secondo, Adelina, Quinto, Gino, Settimo e Marianna – nel podere Sant’Anna, un isolato edificio colonico di proprietà del signor Famoos-Paolini di Campiglia, situato lungo la strada Cafaggio-Casalpiano, non lontano dal fiume Cornia e dal Rio Merdancio.

Astorre è anarchico e combatte con gli Arditi del Popolo. Sa di essere un bersaglio dei fascisti e quindi, ovunque vada, porta sempre con sé una pistola e due bombe a mano, per potersi difendere in caso di aggressione armata. Ma i fascisti di Campiglia non hanno il coraggio di fargli del male, perché sanno che non esiterebbe un attimo a reagire. Lui li ha avvertiti più volte: “io non do noia a nessuno, ma state attenti perché, se mi toccate, io vi ammazzo!” E c’è da prenderlo sul serio perché con la pistola ci sa fare davvero: riesce a infilare quattro pallottole in fila in una pampina di vite a cinquanta metri di distanza.

Quel sabato sera Astorre si trova al bar, dove sta facendo una partita a carte con gli amici. Insieme a lui c’è anche l’amico Giuseppe Parenti, che abita al podere Ulceratico.
Intanto a Venturina un quindicenne sta prendendo lezioni di musica. Si chiama Libero ed è l’unico figlio maschio di Adolfo Turchi e Argentina Paponi. Suo padre è il guardiano della distilleria, dove abita con la sua famiglia. Di fronte alla fabbrica venturinese, nella casa Becorpi, c’è la saletta della banda, dove il ragazzo, insieme ad altri aspiranti musicisti, sta seguendo le “lezioni” di Orfeo Paladini.

Libero è figlio di un socialista che gli ha dato quel nome proprio per insegnargli che la libertà è il bene più prezioso che un uomo possa avere. Ma il ragazzo, invece, ha preso a frequentare i fascisti del paese e, da un po’ di tempo, li segue nelle loro scorribande notturne. Così, anche quella sera, quando i suoi amici in camicia nera passano a prenderlo, posa immediatamente lo strumento ed esce elettrizzato di corsa. Quando chiede dove stiano andando, gli rispondono che lo porteranno a bere un bel bicchiere di vino al Cafaggio e che si divertirà. Libero, nella semioscurità, nota che alcuni dei fascisti presenti non sono di Campiglia. Hanno le facce cupe e, durante il viaggio, non dicono una parola.

Arrivati all’incrocio di Cafaggio, la squadra si ferma e uno di loro entra nel bar con il pretesto di comprare un fiasco di vino, ma l’obbiettivo è un altro. L’uomo individua subito il Tagliaferri, seduto che gioca, gli si avvicina e, passandogli accanto, lo urta volontariamente. Astorre, senza distogliere lo sguardo dalle carte che tiene in mano, gli dice: “cerca di stare più attento quando cammini”. Il fascista si dirige al bancone, si fa dare la bottiglia e, ripassando per uscire, lo urta di nuovo. Il Tagliaferri allora si alza e gli dà un cazzotto in faccia.

Scoppia una violenta rissa che coinvolge anche il Parenti. Sentendo il parapiglia, gli altri fascisti, rimasti fuori dal locale, entrano per aiutare il camerata in difficoltà. Vedendosi accerchiati, Astorre e Giuseppe fuggono dalla finestra e si mettono a correre a rotta di collo, inseguiti dai fascisti.

Ad un certo punto partono dei colpi di pistola e una pallottola colpisce alla schiena Libero Turchi, che cade a terra urlando: è grave.

Il ragazzo viene portato in ambulanza all’ospedale di Pisa, ma sopravvive solo tre settimane. Morirà il 9 settembre 1922.

Per tutta la notte le squadre fasciste, guidate dal capitano Pelamatti, danno la caccia ai due fuggitivi. Astorre riesce ad arrivare a casa, prende poche cose e, correndo per i campi, arriva fino a San Vincenzo, dove abita un contadino anarchico suo amico. Intanto il Parenti, dopo essere stato a casa sua a prendere soldi e documenti, arriva al podere Sant’Anna, convinto di ricongiungersi all’amico Astorre per fuggire insieme, ma invece ci trova il capitano Pelamatti che gli punta la pistola. Giuseppe allora, come in un duello da film western, estrae la sua e batte sul tempo il fascista, colpendolo al busto, poi scappa.

Il Pelamatti, ferito ad un polmone, viene subito soccorso dalla famiglia Tagliaferri, che gli presta le prime cure, e poi portato all’ospedale di Campiglia, dove lo ricoverano d’urgenza.

Giuseppe raggiunge Astorre a San Vincenzo e, il giorno dopo, nascosti sotto a un mucchio di fieno dentro ad un barroccio, arrivano a Livorno. Prendono alloggio in una pensione vicino al porto in attesa di imbarcarsi, dopo qualche giorno, per la Corsica, ma invece di rimanere nascosto in camera, il Parenti, nonostante il parere contrario di Astorre, decide di uscire e se ne va a passeggio per il centro di Livorno. Sfortunatamente per lui, incontra un campigliese che lo riconosce subito, a causa di un occhio malformato, e lo denuncia alle autorità essendo a conoscenza del fatto che il ragazzo è ricercato. Al momento del fermo, Parenti dichiara di chiamarsi Augusto Cavalli e di essere originario di Scarlino. Le forze dell’ordine impiegano 24 ore per identificarlo, poi lo incarcerano a Volterra, dove rimarrà per più di due anni, in attesa di processo, prima di riuscire ad evadere ed espatriare in Francia.

Dopo l’arresto dell’amico, Astorre è riuscito a lasciare l’Italia e a riparare clandestinamente in Francia, dove abita a Marsiglia e a Lione. La Corte d’assise di Pisa lo condanna, in contumacia, a trent’anni di carcere duro per l’omicidio di Libero Turchi e per il ferimento di un altro fascista nella stessa circostanza, Gino Bartoli. Alla fine del 1926, le autorità italiane chiedono a quelle francesi il suo arresto provvisorio, in attesa dell’estradizione. Astorre è descritto come un uomo di statura alta, corporatura snella, fronte spaziosa, occhi castani vivaci e colorito bruno.
Il 23 marzo 1927, il Tagliaferri è segnalato dal capo della polizia di Mussolini come “pregiudicato pericolosissimo”, ricercato per l’uccisione di un fascista, e il 23 aprile viene schedato dalla Prefettura di Livorno, la quale ricorda che, quando abitava a Campiglia, si comportava bene in famiglia, anche se aveva carattere ribelle e impulsivo, riscuoteva cattiva fama per la sua condotta politica, frequentava i sovversivi del posto e professava «con fervore le teorie anarchiche, esplicando attività diretta a menomare la sicurezza dello Stato».

L’11 maggio 1931, le spie fasciste vengono a conoscenza del fatto che Astorre frequenta il Circolo anarchico “Sacco e Vanzetti” di Lione. All’epoca abita a Villeurbanne, fa l’imbianchino e dice di chiamarsi Alberto Meini. Essendo considerato molto pericoloso per l’ordine pubblico, il Tagliaferri cerca di non mettersi in vista per evitare noie con la polizia francese. Il primo giugno la Questura di Livorno chiede che venga iscritto nel “Bollettino delle ricerche”, come «anarchico da arrestare», e il 7 luglio le autorità transalpine lo arrestano provvisoriamente, su istanza del Ministero italiano della Giustizia, che ne ha sollecitato l’estradizione.

Per impedirne la consegna però, gli anarchici e i sindacalisti della regione rodaniana danno vita a un’intensa agitazione e, il primo settembre, il giornale libertario di Lione, “Insorgiamo!”, gli dedica un articolo, nel quale si legge: «che cosa restava da fare a noi che non siamo né dei politici né dei sindacalisti nella tremenda situazione che va dal ‘21 fino alla cosidetta marcia su Roma? L’attacco isolato, la difesa disperata quando le squadracce trionfanti ci premevano da vicino? Quando l’urlo bestiale di cento, di mille detriti umani echeggiava pauroso nella notte? Quando grida e minacce di morte si elevavano nel cielo? E come Spartaco mordeva la polvere nel supremo sacrificio in difesa della libertà, così nella generosa ed ospitale Maremma i figli spirituali di Spartaco difendevano col ferro e col fuoco la casa, la libertà, la vita. Astorre Tagliaferri inseguito, minacciato, attaccato, rispose difendendosi. Qualcuno cadde. Ed è per questo che alla distanza di 9 anni le iene di Roma hanno domandato alla compiacente Marianna l’arresto e l’estradizione del compagno Tagliaferri. A voi camerati francesi agitare l’opinione pubblica del vostro paese; a noi anarchici e rivoluzionari in genere, profughi e proscritti italiani creare attorno al nostro compagno un vasto movimento di simpatia, ed impedire nello stesso tempo – in nome dei più elementari principi di libertà e di giustizia – che il governo francese consegni nelle mani del boia il generoso compagno nostro».

Il 19 settembre la “Chambre des mises en accusation” respinge l’istanza dei fascisti e così, il 25 ottobre, “Insorgiamo!” annuncia: «con l’animo ricolmo di gioia salutiamo l’avvenuta liberazione del compagno Tagliaferri, avvenuta sabato 19 u.s. Le iene di Roma non avranno – come esse speravano – la loro preda, la domanda di estradizione avanzata dai caini dell’Italia fascista è stata rigettata dai magistrati francesi. E questo, grazie al pronto intervento del Comitato di Difesa Sociale di Lione unitamente ai compagni di lingua italiana, che hanno fatto rifulgere tutta la bellezza e la legittimità del gesto di Tagliaferri e tutte le infamie, le brutture degli assassini del governo di Roma. Al compagno Tagliaferri il nostro ben tornato e il nostro saluto solidale».

Dopo essere stato rilasciato però Astorre si allontana dall’impegno politico e i compagni gli rinfacciano di averli abbandonati «dopo aver ricevuto da loro tutti gli aiuti possibili» per evitare il rimpatrio.

Nella seconda metà del 1932, il Tagliaferri è a Ginevra, in cerca di lavoro che però non trova, poi va ad Aubagne, presso Marsiglia e, qualche settimana dopo, torna a Lione, dove apre una ditta di pittura e stuccatura e, nel 1935, assume alle proprie dipendenze l’anarchico Attilio Scarsi.

Nel 1939 è a Villeurbanne, dove continua a fare l’imprenditore nel campo edile. Professa principi libertari ma senza svolgere attività politica degna di nota.

Nel 1948, Astorre scrive dalla Francia al sindaco di Campiglia, per chiedere notizie della sua famiglia.

È la prima volta dopo ventisei anni che si rifà vivo, tentando di riallacciare un contatto con i suoi fratelli e sorelle. Nella lettera chiede al primo cittadino campigliese di informare i suoi familiari che, il tal giorno, alla tal ora, lui sarebbe arrivato alla stazione di Piombino. L’incontro tanto atteso e desiderato avvenne e Astorre poté finalmente riabbracciare i suoi cari e conoscere le nuove generazioni di Tagliaferri.

Lui, avendo vissuto sempre da fuggiasco e da clandestino, non se l’era sentita di farsi una famiglia. Sposarsi e avere figli avrebbe rappresentato una complicazione ma, soprattutto, avrebbe esposto degli innocenti alle sue stesse sofferenze e questo lui non voleva che accadesse.

Il nome di Astorre Tagliaferri fu cancellato per sempre dallo schedario dei sovversivi il 31 luglio 1950. Alberto Meini, per gli amici “Albert”, aveva ripreso le sue vere generalità.
Rimase in Francia, fino al giorno in cui i nipoti – che in qualche occasione, dopo il ricongiungimento, erano andati a trovarlo – lo videro arrivare a casa loro in un carro funebre. Astorre aveva sessant’anni, fu sepolto a Piombino.

Dopo quasi cento anni da quella tragica serata che costò la vita al giovane Libero Turchi, non sappiamo con certezza come andarono le cose e chi fu a sparare il colpo che uccise il ragazzo.
La ricostruzione dei fatti che vi abbiamo raccontato è quella popolare, la stessa che per anni venne raccontata nelle veglie contadine e che, attraverso la testimonianza dei familiari di Astorre Tagliaferri, è giunta fino ad oggi.

Poi c’è la versione ufficiale, quella presente nelle carte del tribunale.

Il 6 dicembre 1926, ci fu il processo in contumacia contro Astorre e Giuseppe, imputati per l’omicidio volontario di Libero Turchi e per il mancato omicidio di Gino Bartoli, ferito al braccio sinistro, e di Flaminio Ferri, oltre che per porto abusivo di rivoltella.

Il Tagliaferri doveva rispondere anche ad un altro capo di imputazione: minacce a mano armata, «per avere il 10 ottobre 1921, in agro di Campiglia Marittima, a scopo intimidatorio, sparato senza giusto motivo due colpi di rivoltella contro Ferri Italo e Salvetti Salvetto»; mentre il Parenti era imputato anche di un altro mancato omicidio, «per avere la notte dal 19 al 20 agosto 1922, in Campiglia Marittima, sparato due colpi di rivoltella contro Pelamatti Pietro, producendogli una ferita che fu causa di pericolo di vita e di malattia per 40 giorni».

Presiedeva l’udienza il cav. Casanova coadiuvato dai giudici del tribunale, gli avvocati Brusisco e De Lemo; al banco dell’accusa il procuratore cav. Bonanno, mentre il difensore d’ufficio era l’avv. Mariani.

Il padre del povero Turchi si era costituito parte civile insieme al capitano Pelamatti e Gino Bartoli, assistiti dall’onorevole avvocato Guido Buffarini Guidi, fascistissimo sindaco di Pisa, deputato al parlamento e addirittura membro del Gran consiglio del fascismo, nonché futuro sottosegretario al ministero dell’Interno.

Assenti, ovviamente, i due imputati, fuggiti in Francia. Nell’aula deserta, davanti alla gabbia vuota, il processo si svolse in due sedute.

Nell’udienza pomeridiana furono sentiti i testimoni, tutti fascisti.

Il primo a parlare fu il colono Carlo Zucchelli, di Campiglia, al quale venne chiesto di raccontare i tragici fatti del 19 agosto: «io ed altri fascisti, fra i quali Libero Turchi, decidemmo di andare a prendere un fiasco di vino per andarlo a bere sul ponte di Roviccione sulla Cornia. Io ero rimasto con Baldi Piero e con altri due compagni più indietro perché ci eravamo trattenuti nell’esercizio del Ferrari. Poco dopo udimmo dei colpi di rivoltella e delle voci che chiedevano aiuto.

Il Ferri Flaminio ci venne incontro e ci narrò che Astor Tagliaferri ed altri avevano sparato e ferito gravemente il Bartoli e il Turchi, da dietro le colonne e il muro della vigna che costeggia la strada.

Mentre stavano portando via il Turchi, il Tagliaferri aveva sparato contro il Ferri forandogli la giacca dopo avergli detto: “Anche tu vigliacco, sei qui!” Seppi più tardi che all’imboscata aveva partecipato anche il Parenti Giuseppe».

Poi fu sentito Olivo Paperini: «mi trovavo al Cafaggio con i fascisti miei compagni, fra i quali il povero Turchi. Verso le ore 21 decidemmo di andare a bere un fiasco di vino verso il ponte di Roviccione. Non ci partimmo tutti insieme ma a gruppi. Io mi trovavo nell’ultimo gruppo. Ad un certo punto sentii una voce gridare e quindi sparare dei colpi di rivoltella alla distanza di circa cento metri dal punto ove io mi trovavo; tuttavia mi gettai a terra per timore di essere colpito. Poco dopo la voce d’Astor Tagliaferri gridò: “Anche tu, vigliacco, sei qui?” Il Tagliaferri sparò due colpi di rivoltella contro il Ferri.

Passato il primo momento di sorpresa ci avvicinammo al posto detto delle Colonne e vedemmo il Tagliaferri in compagnia di altre quattro o cinque persone, che non potei però conoscere».
Il terzo e ultimo testimone fu Luigi Mangiavacchi, maresciallo dei Carabinieri e comandante della stazione di Campiglia: «verso le ore 22,30 di quel giorno fui avvertito che al Cafaggio si trovavano due feriti gravi, il Turchi Libero e Bartoli Gino, ai quali era stata tesa una imboscata da un gruppo di comunisti. Recatomi sul posto appresi dal Turchi che era stato ferito dal Tagliaferri. Anche il Bartoli mi confermò questa circostanza, ma nessuno dei due disse di aver riconosciuto il Parenti Giuseppe». Il maresciallo dichiarò che prima che accadesse il fatto non vi era stato alcun alterco tra gli imputati e le vittime.

Dopo la deposizione del Mangiavacchi prese la parola l’avvocato della parte civile, l’onorevole Buffarini Guidi il quale, con uno stucchevole e retorico discorso, rievocò «la vigliacca imboscata, che tolse la vita ad un giovinetto quindicenne… Uccidendo il Turchi, colpevole solamente d’avere amata troppo la sua Patria, gli assassini hanno ucciso anche i suoi poveri genitori. Ed uguale sorte era stata preparata al giovane Bartoli che, dopo lunghi giorni di sofferenze, poté guarire delle ferite riportate. Il valoroso cap. Pelamatti, dopo aver versato il suo sangue generoso sui campi di battaglia, combatté i nemici interni della nostra Italia, e su di lui si riversò tutto l’odio dei feroci assassini… non si può usare nessuna pietà per gli autori del nefando delitto» meritevoli di «un verdetto inesorabile».

Il Procuratore Generale cav. Bonanno, così si espresse: «non occorre dire molte parole per dimostrare la colpevolezza degli assassini… Dei giovani, dopo aver fatto degli esercizi militari, pensano di andare a bere un bicchiere di vino.

Gli assassini in agguato li attendono, si affrettano per sorpassarli, li aspettano e quando i giovinetti passano a pochi passi da loro, sparano. Essi non colpirono in un momento di odio, ma freddamente. Anche il cap. Pelamatti, che si unì ai RR.CC. nella ricerca dei colpevoli, fu ferito dal Parenti. Quindi nessuna attenuante. Data la gravità del fatto si richiede la massima pena». La richiesta del pubblico ministero fu di trent’anni di reclusione, 300 lire di multa, due anni di vigilanza speciale e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

All’avv. Mariani, difensore d’ufficio, non restò che appellarsi alla clemenza della corte: «mi duole che una giovane vita sia stata spezzata ed ho per i due poveri genitori tutte le parole del conforto… Vi affido le sorti di questi due contumaci, per i quali è stata chiesta una condanna grave. Condanna vi sia e pena, ma non pena gravissima. Non dobbiamo dimenticare che dobbiamo giudicare due incensurati, uno dei quali minorenne».

Non possiamo fare a meno di notare che le due versioni dei fatti, quella popolare e quella ufficiale, sono molto diverse l’una dall’altra ed è normale che sia così.

La gente è sempre stata convinta che Astorre Tagliaferri e Giuseppe Parenti, che si dichiararono sempre innocenti, non fossero responsabili direttamente della morte di Libero Turchi. Si diceva che la pallottola che lo aveva ucciso fosse partita dalla pistola di un fascista durante il concitato inseguimento dei due anarchici fuggitivi. Una possibile prova a sostegno di questa ipotesi potrebbe essere costituita dal fatto che il povero ragazzo venturinese fu colpito alla schiena, cosa che renderebbe plausibile la teoria dell’incidente.

Ma c’è addirittura chi crede che dietro l’omicidio di Libero Turchi ci fosse un piano prestabilito da parte dei fascisti, che avrebbero ucciso volontariamente il giovane per creare un martire fascista e giustificare la violenta reazione nei confronti dei “rossi” campigliesi che, in effetti, non tardò ad arrivare. Si tratta delle stesse voci circolate anche a Piombino subito dopo l’uccisione di Giuseppe Salvestrini. è comprensibile che, in un clima esasperato come quello, si arrivasse a sostenere ipotesi del genere.

Le fonti documentarie e orali non ci permettono di stabilire se Libero Turchi fosse solo un ragazzetto che si era fatto trascinare in un gioco più grande di lui dalle cattive compagnie o se, invece, nonostante la giovanissima età, fosse già un fascista convinto che partecipava attivamente alla guerriglia squadrista.

A Libero Turchi fu eretto un monumento al Cafaggio, sul luogo del ferimento, e sempre alla sua memoria, nel 1929, il podestà di Campiglia, Mauro Cionini, considerato che Libero Turchi ricordava «una giovinezza fiorente del fascismo spezzata dall’odio di parte», deliberava che al ragazzo fosse intitolata la piazzetta di Venturina che oggi si chiama piazza del Popolo.

Per vent’anni fu considerato un eroe della rivoluzione fascista e la sua fama superò i confini del paese natale. Certamente lui avrebbe preferito rimanere sconosciuto e vivere, anziché diventare il martire e uno dei simboli principali del fascismo campigliese, in quella folle estate del 1922.

 

© 2017 – 2022, Valdicorniacult.it – Riproduzione riservata.

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

RIPRODUZIONE RISERVATA